Un approcio rigenerativo all’orticoltura: il metodo no-dig

Che cos’e’ il no-dig

No-dig significa letteralmente non scavare ed è un metodo di “non coltivazione” largamente utilizzato nell’orticoltura su piccola scala.

In questo sistema non si lavora mai il terreno, non si zappa, non si fresa e, soprattutto non si invertono gli strati del suolo con l’aratura.

Le origini di questo metodo non sono chiare ma tra i primi pionieri possiamo nominare Masanobu Fukuoka, Ruth Stout e A. Guest che, nel 1948, scrisse il libro “Gardening without digging”.

Ci sono vari modi per arrivare ad avere un terreno di coltivazione abbastanza morbido da permettere la semina o i trapianti senza previa lavorazione; alcuni di questi comprendono l’uso di compost, fieno, paglia, cippato di legno, teli da occultamento, sovesci.

Perché coltivare col metodo no-dig

Storicamente le lavorazioni del terreno sono state usate per rimuovere le erbacce e creare una porzione di terreno soffice abbastanza da poter accogliere un seme o una pianta, inoltre lavorando il suolo viene arieggiato ed è possibile incorporare fertilizzanti o i residui colturali.

Quando però guardiamo il suolo dal punto di vista della microbiologia, questo ci appare come una fitta rete di connessioni tra vari microrganismi il cui ruolo è quello di riciclare i nutrienti, prevenire le malattie, solubilizzare minerali, formare aggregati.

Quando andiamo ad effettuare le lavorazioni del terreno, molte di queste connessioni vengono rotte e l’attività microbica generale viene ridotta.

Inoltre, l’ossigeno incorporato nel terreno innesca dei processi ossidativi che portano alla liberazione nell’atmosfera di una parte della sostanza organica sotto forma di carbonio (CO2).

Altro fattore non trascurabile, che avviene dopo le arature dei terreni agricoli, è l’erosione del suolo causata dagli agenti atmosferici, principalmente le piogge che, cadendo copiose sui campi appena arati, quindi privi di radici, dilavano questi terreni andando di fatto a ridurre la quantità di elementi nutritivi presenti nel terreno.

L’agricoltura rigenerativa cerca di guardare ai nostri sistemi agricoli in maniera diversa e di imitare quello che succede negli ecosistemi naturali.

Il metodo no-dig risponde benissimo ai principi fondamentali dell’agricoltura rigenerativa e cioè, disturbare il suolo il meno possibile, tenere il suolo sempre coperto e lasciare sempre le radici nel terreno.

Bisogna subito specificare che “disturbare il suolo il meno possibile”, anche con un approccio no-dig, non significa non disturbarlo affatto.

Il suolo, essendo un organismo vivente, è in costante movimento, si trova sempre in un flusso dinamico di disturbo e risposta. Tra le cause di disturbo ci sono il movimento della macrofauna, gli eventi atmosferici, il raccolto delle piante o ad esempio anche strappare un’erbaccia.

Il metodo no-dig riduce al minimo la quantità di disturbo ed è figlio di un’attenta osservazione delle dinamiche naturali.

no-dig terreni agricoli

Le successioni ecologiche

In natura quello che assomiglia di più a uno dei nostri campi appena fresati potrebbe essere una frana.

Quello che succede quando si crea un disturbo di grossa entità è il tornare indietro fino ai primi stadi della successione ecologica, che va dal terreno nudo fino a un ecosistema stabile.

Tantissimi semi ricevono il segnale per germinare, piante erbacee pioniere iniziano a colonizzare il terreno, a morire e decomporsi creando le condizioni ideali perché altri tipi di piante trovino terreno fertile e così via, attraverso erbacee perenni, arbusti, alberi, fino ad arrivare ad un ecosistema stabile come potrebbe essere un bosco di quercia.

Le nostre orticole coltivate, benché siano a tutti gli effetti delle “erbacce selezionate”, non appartengono a quella fase della successione in cui dominano le erbacce ma piuttosto ad una fase intermedia in cui le erbacce pioniere hanno già assolto il loro compito, aumentando il livello di sostanza organica e bilanciando le popolazioni di funghi e batteri.

In questo ecosistema il suolo viene disturbato poco o per niente. Prendendo ispirazione da queste dinamiche, possiamo creare un sistema agricolo che meglio si adatta alle nostre orticole e in più ci semplifica il lavoro.

Vari approci al no dig

Se avete già sentito parlare di no-dig sicuramente lo associate ad un enorme uso di compost; orticoltori come Charles Dowding e Richard Perkins hanno infatti reso celebre questo modo di fare l’orto che prevede l’uso di uno strato di almeno 10 cm di compost.

Sostanzialmente quello che si fa con questo metodo è molto semplice: si taglia tutta la vegetazione spontanea, si mette uno strato di fogli di cartone (facoltativo), si procede con 10/15 cm di compost e si trapianta o si semina direttamente nel compost.

Questo fa saltare il terreno in una fase della successione ecologica più avanzata, in cui la sostanza organica è abbondante e il rapporto tra batteri e funghi è più bilanciato. In questo modo la crescita delle infestanti è molto limitata, sia per l’oscuramento che offre lo strato di compost sia perché le erbacce prosperano in un ambiente a predominanza batterica.

Il sistema appena descritto offre sicuramente alcuni vantaggi ma la sostenibilità di un uso così massiccio di compost è messa in discussione, e inoltre in molte aree della nostra penisola non si riesce a trovare o si trova di scarsissima qualità.

Anche l’autoproduzione di massicci quantitativi di compost non è realizzabile su piccola scala, ovvero all’interno della propria azienda.

Indubbiamente avere un orto privo di erbacce, e un substrato di facile lavorazione, per quello che riguarda la semina è una marcia in più per qualsiasi orticoltore, ma le criticità hanno spinto alcuni coltivatori a cercare sistemi alternativi che non prevedano l’uso di compost.

Ad Agricola Cabotina ad esempio, nell’entroterra del profondo ponente ligure, il compost municipale è di pessima qualità e ci siamo trovati a dover affrontare questo problema ricorrendo alla creatività per trovare soluzioni diverse ma altrettanto funzionali.

L’obiettivo era riuscire ad avere un terreno abbastanza morbido da poterci trapiantare le nostre piante, senza ricorrere alle lavorazioni.

Dopo aver effettuato le analisi del suolo ed aver constato che il rapporto tra magnesio e calcio era leggermente squilibrato, nonostante il terreno nativo sia tendenzialmente sabbioso-limoso, e prendendo in considerazione i materiali che avevamo a disposizione localmente, abbiamo agito in questo modo: a fine autunno abbiamo sparso sul terreno gesso (solfato di calcio), per riequilibrare il rapporto calcio-magnesio, polveri di roccia, cippato di legno prodotto in azienda e letame in proporzioni tali da avere un rapporto carbonio-azoto di 30:1.

In seguito ad una pioggia abbondante abbiamo coperto tutto il terreno con i teli da occultamento e lasciato che la microbiologia facesse il suo lavoro.

Circa 4 mesi dopo abbiamo tolto i teli e quello che abbiamo trovato era un terreno così soffice che potevamo entrarci col braccio, quasi fino al gomito, senza fatica.

A questo punto abbiamo leggermente disturbato il terreno con la grelinette  per arieggiare in profondità, effettuato i nostri trapianti, coperto con fieno e successivamente il terreno non è più stato toccato.

Nel nostro caso questo sistema ha funzionato egregiamente, ma questo non vuol dire che sia trasportabile in qualsiasi altro contesto. Non esistono soluzioni copia e incolla e ogni decisione va presa dopo un’attenta osservazione.

I teli da occultamento sono sicuramente una grande risorsa quando si vuole approcciarsi al no-dig perché danno la possibilità di ripulire un terreno dalle erbacce senza lavorazioni meccaniche.

D’altro canto però, il lato negativo è che sono comunque fatti di plastica (durata media di circa 10 anni) e, quando andiamo a stenderne grosse porzioni sul terreno, in qualche modo impediamo il naturale respiro del suolo e la comunità microbica viene modificata a favore dei microrganismi anaerobi e facoltativi.

Dal punto di vista della microbiologia non sono dannosi, anzi, si è notato che nello strato superficiale l’attività microbica e della macrofauna aumenta, rimane comunque il problema della sostenibilità riguardo l’uso di materiali plastici.

Queste ultime considerazioni ci portano ad approcciarsi con metodo più sostenibile alla tecnica no-dig, forse anche più rigenerativa, che consiste nel seminare un sovescio e, al momento della fioritura, allettarlo andando a creare una pacciamatura naturale.

Questo sistema, oltre a funzionare molto bene, offre diversi vantaggi tra cui un uso ridotto di materiali plastici, copertura viva che nutre attivamente i microrganismi durante l’inverno e nessun bisogno di aggiungere altro materiale per pacciamare.

Tuttavia non è un metodo che può essere utilizzato sempre; ad esempio, in primavera non si riesce ad avere un sovescio abbastanza sviluppato da poterlo allettare e inoltre, non essendo ancora andato in fioritura, anche allettandolo precocemente avrebbe ancora abbastanza energia per rialzarsi.

Come detto in precedenza non bisogna prendere il metodo no-dig come un dogma. Il nostro ruolo all’interno degli ecosistemi è quello di disturbatori, ma dobbiamo solo imparare a disturbare in modo strategico.

È molto comune per chi pratica il no-dig effettuare una prima lavorazione del terreno con la fresa per poi non lavorarlo più.

Riassumendo, ci sono diversi metodi di fare agricoltura no-dig e molte aziende che sposano questa filosofia applicano solitamente un mix di approcci.

Per colture come la carota, un generoso strato di compost permette il passaggio delle seminatrici e ritarda di molto la crescita delle erbacce, dando ampio vantaggio alla coltivazione. Inoltre in primavera offre maggiore calore dovuto al colore nero del compost, che cattura i raggi solari; durante l’estate pacciamare con fieno o paglia rinfresca invece il suolo e ferma l’evapotraspirazione.

Lavorando con i sovesci soddisfiamo sia la necessità di sfamare attivamente i microrganismi e arricchire il suolo e sia il bisogno di copertura per i nostri trapianti.

teli da occultamento

Cambiare mentalità e imparare dagli errori

Per quanto riguarda la salute del suolo, il metodo no-dig è sicuramente il più indicato e in aree svantaggiate riduce di molto la fatica e il costo di dover continuamente spostare mezzi pesanti.

Le lavorazioni del terreno sono la principale causa di erosione dei nostri suoli, liberano CO2 nell’atmosfera, distruggono la struttura del suolo e le comunità microbiche e l’unico motivo per cui vengono ancora largamente effettuate è che attualmente, da parte di alcuni agricoltori, c’è troppo poca attenzione a quelli che sono gli approcci rigenerativi dell’agricoltura.

Questo non vuol dire che in alcuni casi non sia anche benefica una lavorazione del terreno, magari solo dei primi 5 cm e con attrezzi adeguati, ma per tutte le ragioni elencate sopra molti agricoltori stanno passando a questo metodo, e altri cercano di lavorare con “minime lavorazioni”.

Molto spesso però, quello che impedisce di modificare il nostro impatto sull’ecosistema non è l’impossibilità di passare a metodi alternativi ma la difficoltà che troviamo nel cambiare la nostra impostazione mentale; frasi come “si è sempre fatto così”, “questa cosa nel mio terreno non funziona”, “questo non è possibile”, rispecchiano un atteggiamento di chiusura e ostacolano la crescita.

Quando cambiamo impostazione mentale iniziamo a vedere i problemi, inclusi i fallimenti, come opportunità di migliorare, di imparare cose nuove e forse anche di diventare agricoltori migliori.

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