Proviamo a mettere una cornice intorno all’argomento.
A capire perché davvero muoverci verso l’autoproduzione può diventareun gesto importante per il pianeta anche a partire da un piccolo gesto, dalla micro coltivazione sul balcone.
Questo è il primo di una serie di articoli che ci aiuterà a riacquistare quella consapevolezza che ha accompagnato l’umanità negli ultimi 20/25 mila anni da quando, cioè, ci si è accorti che era più facile gettare i semi (interessante libro per chi vuole autoriprodurseli in casa ) intorno al proprio rifugio piuttosto che vagare alla ricerca di piante e frutti.
Da quei primi uomini (ma più probabilmente donne, visto che loro era il dominio sul regno vegetale) che in Mesopotamia intuirono il segreto della germinazione, è iniziato un cammino avventuroso, un nuovo rapporto dell’umanità nei confronti della natura nella quale era immersa come compartecipante più o meno alla pari con gli altri animali.
Pensate cosa ha significato: dall’agricoltura è nato l’accumulo di riserve e poi via verso il villaggio stanziale che ha portato all’allevamento, all’utilizzo degli animali da tiro, alla specializzazione dei mestieri, alle città, quindi agli stati, agli imperi, al dominio di questi sulle comunità di cacciatori-raccoglitori non ancora raggiunti dalla “civiltà”, ai disastri ambientali (sembrerebbe cominciati millenni fa con la desertificazione provocata da incendi appiccati per strappare terre coltivabili alle foreste) e a un pianeta sgomento che vede la popolazione umana aumentare con disinvoltura di miliardo in miliardo consumando e cementificando suolo.
Viene da pensare che forse quella massaia di 25 mila anni fa, quando ha visto germinare i semi di miglio che gli erano caduti vicino alla capanna, avrebbe fatto bene a girarsi dall’altra parte e a non dare peso alla faccenda; ma ormai quel che è fatto è fatto e indietro non si torna.
E allora?
Non resta che cominciare a pensare a come riposizionarci nei confronti di un pianeta che inevitabilmente sta già presentando il conto, un conto piuttosto salato per noi e per molte altre specie che inconsapevolmente stanno pagando con l’estinzione la nostra attitudine a strafare.
Organizzare dei convegni internazionali tra capi di stato va bene, sicuramente manterranno le loro promesse fissate a trenta o quarant’anni, ma ho il sospetto che il vero cambiamento è a nostro carico: individualmente occorre cambiare visione, interiorizzare che un pomodoro nato in giardino, colto e mangiato ha un impatto sull’ambiente ben diverso da uno stesso ortaggio che viene prodotto e trasportato bruciando litri e litri di gasolio, messo in una cella frigorifero che consuma energia, appoggiato in una vaschetta di polistirolo e avvolto in pellicola a loro volta prodotte con petrolio, lavorate, trasportate e smaltite con consumo di altra energia… e mi son dimenticato del processo di produzione degli antiparassitari, dei concimi chimici etc… Roba che viene voglia di andare a letto a digiuno bevendo solo un bicchiere d’acqua.
L’autoproduzione quindi, prima di tutto come nostra palestra per acquistare consapevolezza, ma via via come contributo a diminuire l’impatto dell’agricoltura così come viene pensata oggi sull’ambiente e, sorpresa, con i giusti spazi e un po’ di tempo a disposizione, come contributo significativo alla qualità della nostra alimentazione, della nostra salute e, ultimo ma non per ultimo, del nostro reddito.
Ovviamente non bastano le buone intenzioni. Non c’è consapevolezza senza il “sapere”. Perché la nostra coltivazione abbia successo dobbiamo capire a fondo come funziona il regno vegetale, il terreno e il clima, ripercorrere il cammino del sapere dei primi coltivatori del neolitico con il vantaggio di 25 mila anni di osservazioni, studi e sperimentazioni già intrapresi e pronti all’uso.

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Due scuole di pensiero per fare agricoltura
Parlando di agricoltura le strade si dividono in due scuole di pensiero: piegare la natura verso le esigenze dell’uomo economico, massimizzando i risultati ottenibili attraverso coltivazioni intensive che non tengono conto delle esigenze dell’ambiente in cui coltiviamo o limitarsi a favorire le condizioni ottimali per la crescita della pianta che ci interessa senza offendere, anzi proteggendo, l’ambiente che le ospita?
Quest’ultima soluzione è quella che ci interessa, quella che ci piacerebbe vedere più diffusa nel nostro “pianeta di riserva”, quella che noi stessi possiamo iniziare a interpretare con l’autoproduzione, vale a dire del produrre direttamente una parte dei prodotti di cui ci nutriamo senza passaggi intermedi.
L’agricoltura industriale da reddito, infatti, è amica dell’ambiente più o meno come lo è un’acciaieria. Senza entrare troppo nel dettaglio i punti dolenti principali sono le monocolture, la meccanizzazione esasperata, l’utilizzo massiccio di prodotti chimici sul terreno, il grande dispendio di acqua.
Ma i guai non finiscono qui: spesso, come è il caso di buona parte della pianura Padana, si produce qualcosa (il mais, tanto per non fare nomi) che non serve nemmeno direttamente all’alimentazione umana, ma per l’industria della mangimistica.
Questa, a sua volta, alimenterà una popolazione di bestiame da latte e da carne sproporzionata rispetto all’area che la ospita e che provoca ulteriori disastri ambientali attraverso produzione di metano che contribuisce al surriscaldamento e alla percolazione di sostanze indesiderate nella falda acquifera.
E già, perché le deiezioni animali non passeranno nemmeno quel processo di maturazione che le trasforma nel prezioso “letame” alleato tanto dell’uomo quanto del terreno, ma vengono sparse nei campi allo stato di liquame alla stregua di un qualsiasi concime chimico.
La monocoltura è il paradiso dei parassiti grandi e piccoli: grande abbondanza di cibo e nessuna interruzione del loro ciclo vitale da una stagione all’altra come avviene attraverso l’alternanza di diverse colture. Si risponde con la chimica, gli organismi si adattano, si rinforzano le formule dei composti e via così in una lotta che non vede né vinti né vincitori se non un peggioramento lento e inesorabile della nostra salute e di quello del Pianeta.
La potente meccanica usata in agricoltura ha cambiato il paesaggio: via le siepi, che dividevano le proprietà ma erano anche barriere per i parassiti, via gli alberi isolati che davano ristoro ai braccianti al lavoro e contribuivano alla fotosintesi.
Il passaggio sul terreno di veicoli pesanti tonnellate ne compromette la struttura, le arature profonde (ora un po’ meno in uso) trasformano il terreno da substrato vivo, habitat di microorganismi che generano nutrimento alla pianta a una sede minerale sterile dove la pianta trova nutrimento grazie all’integrazione di concimi chimici sintetici.
I fiumi vengono svuotati per canalizzare l’acqua nei campi.
Il successo è assicurato: le produzioni q.li/ettaro sono da capogiro eppure i conti alla lunga non tornano.
Ci si è dimenticati che la terra va accarezzata e non strapazzata, che alla lunga la trasformiamo in una tavola sterile, che possiamo anche allevare del bestiame ma in armonia tra numero di capi e superficie di terreno a disposizione o ci tocca chiudere i pozzi dell’acqua potabile, che è importante coltivare un po’ di tutto altrimenti basta una guerra, l’occupazione di un porto o una nave che si mette di traverso sul canale di Suez per metterci in gravi difficoltà.
Bisognerebbe, insomma, ritornare a una agricoltura nemmeno esasperatamente ecologica, semplicemente più lungimirante e non accecata solo dal profitto a breve termine.
Ci sono segnali che fanno ben sperare, molti agricoltori si stanno convertendo verso il bio, ma occorre che le università e i centri di ricerca investano di più nello studio per una nuova agricoltura che possa conciliare i benefici delle pratiche tradizionali con quelli offerti da nuovi strumenti per andare verso una agricoltura amica del Pianeta e al tempo stesso in grado di sfamare miliardi di uomini per lo più urbanizzati.
Ce la faremo, forse, ma dovremmo iniziare noi stessi a cambiare approccio verso ciò che consumiamo.
Partendo proprio dall’autoproduzione.
All’inizio fu il basilico
Consapevolezza e autoproduzione viaggiano a braccetto e interessano tutti noi. Non occorre essere agricoltori e nemmeno avere un piccolo orto. Banalmente il punto di partenza è il vaso o la cassetta di erbe aromatiche che coltiviamo sul balcone di casa. Non tanto per la quantità di raccolto rispetto ai bisogni della nostra dieta, quanto al fatto che sarà una buona palestra per iniziare a capire le esigenze delle piante, la stagionalità delle produzioni, il rapporto tra la nostra dedizione verso una coltivazione e quello che diventerà cibo.

La peperonata in inverno fa male?
La grande specializzazione dei nostri lavori, delle nostre attività, ci ha allontanato dalle campagne dalla cultura rurale, dal rapporto diretto tra lavoro, natura e cibo sostenibile.
Non capiamo perché l’insalata in busta non è una buona idea, così come preparare la peperonata in inverno pur essendo prodotti che in sé non fanno nulla di male, anzi sono cento volte meglio di molto “cibo spazzatura” che ingeriamo.
Restando sui due esempi. L’insalata pronta all’uso nasce per far risparmiare tempo al consumatore finale che si trova in mano un prodotto che deve solo condire. Anche l’esercente ha i suoi vantaggi nella gestione di sacchetti refrigerati rispetto alla movimentazione e conservazione di cassette di prodotto non lavorato.
Un’idea eccellente, non ci sono conservanti chimici e, se il prodotto è stato lavorato e gestito correttamente, nemmeno una carica batterica dannosa per il nostro organismo.
Il prezzo al chilogrammo però ci racconta anche una storia fatta di lavorazioni a basse temperature, che hanno un costo energetico importante, e dell’ennesimo imballaggio in plastica.
E prima del processo di lavorazione?
Concimazione chimica, diserbo, insetticidi e antiparassitari. E pensare che far crescere in giardino le insalate da taglio è un gioco da ragazzi, che una superficie di terreno grande come il tavolo della nostra cucina basta e avanza e potremo mangiare un prodotto appena tagliato completamente libero da prodotti chimici.
Il prezzo? Una bustina da semenza , un po’ di tempo da dedicargli, una sciacquata per togliere terra e qualche eventuale lumachina.
E il peperone in inverno che male ti ha fatto a parte costare 5 euro al chilo?
Insieme ad altri ortaggi tipicamente estivi come melanzane e zucchine crescono solo in serre riscaldate nelle regioni più meridionali del nostro Paese, in Spagna, Grecia, Turchia, Marocco.
Oltre ai costi energetici di produzione e trasporto, la coltivazione in serra richiede importanti interventi con prodotti chimici antiparassitari.
Peraltro per superare i controlli sulla presenza di residui di pesticidi, si possono irrorare più principi attivi, in modo che il singolo prodotto sia entro la soglia legale, ma la nostra peperonata sarà un vero campionario di antiparassitari.
La confusione è tanta: frequentando i gruppi di acquisto solidali, quindi di un’utenza piuttosto motivata mi sono accorto che si lamentavano dell’assenza in inverno di prodotti tipicamente estivi, invece sempre presenti nei circuiti di vendita tradizionali.
Consapevolezza vuol dire sapere che il peperone comprato in luglio può essere coltivato nei campi dietro casa nostra e arrivare sul banco del mercato percorrendo solo pochi chilometri, che coltivarlo non ha comportato dispendi energetici particolarmente alti, che le sue qualità organolettiche in stagione saranno il massimo.
Consapevolezza vuole dire sapere che ogni banana sbucciata e mangiata vale un mucchio di carburante bruciato per trasportala dalla zona tropicale delle Americhe al supermercato sotto casa.
Attenzione però, consapevolezza non vuol dire necessariamente mortificazione e rinuncia, ma è il primo passo di un lungo cammino, che comincia con la soddisfazione di condire il sugo con il proprio basilico coltivato sul balcone e si conclude idealmente con uno stile di vita che si avvicina molto all’autosufficienza alimentare.
- Cereda, Matteo (Autore)